A chi non è mai capitato di tornare in ufficio, dopo una seconda visita, con un bel NO scritto sul tabellino di marcia in corrispondenza del nome cliente che pensavamo di avere già chiuso in prima visita?
Così, ripensando agli errori possibili, dialogando con il capo o il collega di turno si escludono le ipotesi meno verosimili per concentrarsi sulle scuse più comunemente accettate, le cosiddette scuse pacca sulla spalla:
1. un amico o un parente l’ha dissuaso;
2. un articolo di giornale ha distolto la sua attenzione dall’acquisto;
3. un altro venditore dello stesso articolo o servizio è stato più veloce e più bravo;
4. il nostro prodotto/servizio non è competitivo e poi costa troppo;
5. qualcosa ha fatto improvvisamente impazzire il cliente tanto che mi ha detto NO.
Mai sopraffatto dall’emozione, come recitano i sacri testi della vendita, nella mente del venditore esperto a questo punto si procede a un’attenta analisi sul percorso di vendita:
1. Ho fissato l’appuntamento: SI FATTO!
2. Ho rotto il ghiaccio: SI FATTO!
3. Ho adeguatamente presentato me e la Società: SI FATTO!
4. Ho fatto le mie belle domande: SI FATTO!
5. Ho ascoltato le risposte: SI FATTO!
6. Ho chiesto conferma di quello che il cliente voleva: SI FATTO!
7. Ho fissato la visita di ritorno: SI FATTO!
8. Ho preparato l’esposizione di chiusura: SI FATTO!
9. Ho superato le obiezioni: SI FATTO
“Ma il cliente mi ha detto no, qualcosa deve essere andato storto!”, dice il venditore, ripassando ferocemente il manuale di vendita in voga in quel momento, alla ricerca della soluzione perfetta.
Poi lentamente la ragione prende il sopravvento sull’emozione e le tessere del mosaico tendono a ritornare ciascuna al loro posto. Le domande, queste sconosciute, portano alla mente una serie d’interrogativi senza risposta: Dove potevo avere sbagliato con il cliente che consideravo già chiuso? Nella fase di approccio non sono stato forse sufficientemente credibile ed empatico? Ho inquadrato l’esigenza manifestata o mi sono concentrato troppo sul contratto? Ho illustrato troppo il prodotto/servizio senza mettere in luce i vantaggi che lui avrebbe potuto avere acquistandolo? Sono stato troppo aggressivo o troppo disponibile? E quante domande ancora potrebbero scorrere nella nostra mente quando si analizzano le cose osservandole dal balcone che ci decontestualizza dal momento, come dice William Ury (William Ury, Il no positivo, TEA, 2012), che ci fa vedere tutto secondo una diversa e distaccata visione, come se fossimo osservatori esterni non coinvolti?
Insomma quando non si chiude un contratto, molte delle cause dell’insuccesso, che noi con facilità attribuiamo al cliente, dovrebbero essere cercate nel nostro comportamento. Eppure una cosa certa c’è: il cliente non partecipa a corsi di sopravvivenza alla vendita, ma non per questo è di per sé condannato a dire sempre SI. Che cosa dire invece di noi, eroi della comunicazione, reduci da mille battaglie combattute sul difficile campo della trattativa, attenti e preparati discepoli della formazione sul come vendere che cosa, che talvolta, nel migliore dei casi, siamo sconfitti da un cliente che ha osato dirci NO, nonostante che di quella materia conosca un milionesimo di quanto noi conosciamo?
Forse il punto è davvero un altro: bisogna cominciare a pensare alla trattativa non come un campo di battaglia dove spianare le armi, cliente contro venditore, nella grande ed estenuante competizione tra SI e No, ma piuttosto ad una Agorà, dove ciascuno mostra le proprie capacità, le proprie competenze e i propri bisogni, senza maschere o finzioni, senza compromessi di facciata, perché solo così la trattativa possa diventare interscambio per la santa alleanza tra cliente e venditore, per la creazione continua di occasioni di business.
Giovanni Donini, 28 febbraio 2018